Dark Light
Nell’editoriale del secondo numero di Be Circular, Massimiliano Zaccagnini introduce i contenuti di questa nuova uscita del magazine, condividendo interessanti spunti e pensieri sulla plastica nella nostra quotidianità.

Premessa: non sono un addetto ai lavori. La plastica la uso, con la plastica convivo e, a quanto pare, di plastica ogni tanto e inconsapevolmente mi nutro, come tutti. Della plastica, infine, non sono un grande fan. Il mio punto di vista, quindi, è quello di un normale consumatore, preso tra i fuochi di Greta da una parte e della quotidiana innegabile praticità dall’altra. E pertanto questo editoriale non vuol essere altro che uno spunto di riflessione, sul tema innanzitutto per me stesso. 

La Thunberg, già, partiamo da lei. 

Inquietante è il primo aggettivo che mi affiora ogni volta che la vedo e che la, o ne, sento parlare. Inquietante, perché inquietante è il messaggio che ci trasmette: il tempo corre e bisogna darsi da fare prima che sia troppo tardi. Inquietante perché per un cinquantenne come me, farsi ricordare l’importanza di certi temi da una minorenne genera senz’altro inquietudine: cosa ho fatto in tutti questi anni? Ho dato il giusto peso ai temi dell’ecologia? Ho fatto qualcosa di concreto per la natura, che personalmente amo? O mi sono limitato a godere dei suoi ritmi, delle sue sensazioni quando potevo permettermele? Ne ho solo sfruttato i vantaggi senza adoperarmi per mantenerla sana e florida…? Inquietante. 

E inquietante, Greta, lo è anche nella sua fisicità, nella sua prossemica, nel suo sedere al tavolo dei grandi con una naturalezza e una presenza… inquietanti, non mi viene altro termine. Quando ero piccolo, noi piccoli conquistavamo i tavoli dei grandi per le poesie di Natale o per le torte di compleanno. Greta siede sugli scranni dell’Onu. E parla. E rimprovera, come il più grande dei grandi, come il più potente dei potenti. Inquietante. 

E allora, ecco che noi consumatori, tra le altre cose, cominciamo a guardare con un occhio diverso la bottiglia di plastica che sta sulla nostra, di tavola. E la confezione delle verdure. E la busta con cui facciamo la spesa. Tutto, improvvisamente, diventa qualcosa di diverso, di pericoloso, di minaccioso.  Sulla scorta di questa visione, di questa inquietudine, i carburanti delle nostre auto diventano il fiato di Satana, le nostre fabbriche il suo impero, la plastica il suo potente, invasivo, veleno. 

Eppure… 

Eppure, grazie ai carburanti abbiamo ampliato i nostri orizzonti, abbiamo imparato a conoscere altri mondi, altre culture, altre persone; le fabbriche ci hanno donato, per lo meno alla maggior parte di noi occidentali, livelli di qualità della vita mai raggiunti prima dall’uomo; e la plastica, bhè la plastica ci rende la vita davvero facile. È diventata il nostro pane quotidiano, anche letteralmente, purtroppo. 

Il web è pieno di plastic free challange, coppie, amici e singoli youtuber che si sfidano – e sfidano gli altri – a vivere un giorno, un mese, un anno senza usare mai la plastica. Ma è davvero possibile? Mentre scrivo me lo chiedo e non devo nemmeno alzare gli occhi dal pc: la tastiera è il primo testimone della presenza della plastica nella mia vita. 

E non credo sarei disposto, nonostante il suo fascino, a tornare al metallo delle prime macchine da scrivere. È in bachelite anche il bocchino della pipa che mi aiuta a trovare ispirazione, anche se lo so, il fumo fa male e non corrisponde ad un comportamento eticamente ecologico. O ecologicamente etico. È di plastica il manico della padella con cui ho cucinato, in plastica dura ma leggera molte parti della mia auto. Se fossero in metallo, il mio portafogli soffrirebbe ulteriormente per tutte le volte in più che dovrei fermarmi a fare il pieno. Sono in plastica gli interni degli aerei, i sedili delle metro e dei bus, i corpi delle penne, le provette sanitarie, carene e telai, elementi architettonici, supporti logistici, parti di macchinari chirurgici, parti di apparecchi di laboratorio dedicati alla ricerca. E visto che qualcuno ha iniziato anche a costruire case con le stampanti 3d, non sappiamo dove ancora può portarci il suo supporto. Trovo plastica dove prima trovavo il metallo, e forse si è ridotto l’impatto che la sua lavorazione genera sull’ambiente, la trovo al posto del legno, e forse c’è qualche albero in più sulla terra, la trovo laddove prima trovavo il cuoio, e forse c’è anche qualche animale in più. 

Allora mi chiedo, sempre da semplice consumatore, sono davvero disposto a rinunciare a tutto questo? Voglio davvero perdere tutti i vantaggi, economici, funzionali e sì, anche ecologici, che la plastica mi offre? O devo piuttosto lasciarmi andare a questa demonizzante che da più parti la sta aggredendo trattandola come la peste del nuovo millennio? 

Ho trovato on line, tra i tanti, un recente articolo di Carlo Stagnaro, direttore dell’Osservatorio sull’economia digitale dell’Istituto Bruno Leoni, dal titolo La rivincita della plastica.  Cito: «La questione delle plastiche non sta nel loro utilizzo o nel ciclo produttivo – che anzi è meno impattante rispetto a molte alternative – ma nel fine vita. Riguarda la raccolta e la destinazione dei rifiuti di plastica. Per dare una dimensione: dei 380 milioni di tonnellate che produciamo annualmente, circa il 3 per cento finisce negli oceani». L’articolo è dell’aprile 2020. E ra appena iniziato, da qualche mese, il biennio orribile della pandemia Covid 19 dal quale – ed è una speranza condivisa – si sta uscendo anche grazie all’utilizzo delle mascherine, dei guanti e del plexiglass… tutti prodotti nati dalla lavorazione di materiali plastici. 

Non sarebbe meglio, allora, per me, dopo aver ascoltato con attenzione, scrupolo e partecipazione le sacrosante grida thunbergiane scegliere la via della razionalità a quella dell’impulso emotivo? Non affidarmi ad una polarizzazione preconcetta ma privilegiare l’uso razionale, consapevole, non generalizzato e non banalizzato dei prodotti plastici?  Non sarebbe più costruttivo premiare i comportamenti – individuali, istituzionali e aziendali – che facilitano il riuso e il riciclo e penalizzare quelli che fanno dello spreco e dell’abbandono indifferenziato il loro core business? 

Non sarebbe il caso, insomma, di essere più plastico, etimologicamente plastico, capace cioè di adattarmi alle necessità e di trovare le soluzioni più solide, efficienti e durature? La mia, come dicevo all’inizio, è solo la riflessione di un consumatore generico. Nelle pagine e nei video che seguono, troveranno spazio contenuti e storie più significative, nate dall’esperienza di chi con la plastica lavora e costruisce, ogni giorno, un’economia che sa essere sana ed ecologicamente corretta. 

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